Il clima incandescente che si è sviluppato in questi giorni mi avvilisce. La politica dovrebbe farla da padrone, il Referendum Costituzionale è un appuntamento troppo importante per metterla da parte e lasciare spazio a inutili battibecchi e stupidi sgambetti.
Voterò SÌ convintamente. E dopo il dibattito che si è svolto ieri sera con donne da tutta Italia alla presenza della Ministra Maria Elena Boschi ne sono ancora più convinta.
Entriamo nel merito, discutiamo seriamente.
#Bastaunsì per il nostro futuro e quello dei nostri figli.
Le ragioni delle donne per il Sì, di Fabrizia Giuliani (L’Unità, 18 ottobre 2016)
E’ ampia e variegata la campagna a sostegno delle ragioni del sì al prossimo Referendum sulle riforme costituzionali. Iniziative legate ai territori, alle professioni, alle amministrazioni locali, agli orientamenti politici. Dentro questo movimento si distingue una rete di Comitati fondati e composti da donne – ma non solo – che unisce realtà diverse, da nord a sud e che oggi incontra la Ministra Boschi a Roma. La mobilitazione non deve sorprendere: non si tratta di una battaglia di parte, ‘al femminile’ per il Sì, non c’è nulla di strumentale nelle ragioni che tengono uniti i comitati dalla Liguria alla Basilicata. Le ragioni delle donne toccano il fondamento stesso dei quesiti referendari: la necessità del cambiamento, l’urgenza di rimuovere gli ostacoli che hanno impedito, fino ad ora, la riforma di un assetto istituzionale obsoleto e mal funzionante. A queste si unisce la consapevolezza di aver pagato un prezzo alto – più alto di altri – al blocco del sistema e ai tentativi di riforma non riusciti o mal riusciti, come la Riforma del Titolo V.
Niente è cambiato come la vita delle donne nell’ultimo secolo. Alcuni paesi, in Europa i più forti, hanno sostenuto questo cambiamento con riforme mirate, guadagnandone in sviluppo e crescita. La nostra è stata una storia diversa: le resistenze alla partecipazione femminile alla vita pubblica, a mettere mano alle trasformazioni che questa comporta, sono state più forti e durature che altrove. Se i motivi sono certo da ricondurre a fattori politici e culturali di vario ordine, è un fatto che la complessiva difficoltà a riformarsi del nostro sistema istituzionale ha contribuito a creare uno scarto profondo tra la realtà dei cambiamenti conquistati e le politiche innovative necessarie a sostenerli. Le donne sono cambiate, il mondo intorno a loro no, o troppo poco.
Le revisioni costituzionali non sono, dunque, percepite come questioni lontane o astratte. Al contrario, sono avvertite come condizione per realizzare i cambiamenti necessari. E’ chiara la consapevolezza che per poter avviare un ciclo di riforme virtuoso, che consenta alle donne di avviare il processo necessario per raggiungere gli standard europei è necessario stabilizzare le istituzioni, semplificare il processo decisionale, tagliare i costi degli apparati politici e burocratici, intervenire nei rapporti tra Stato e regioni. Il cambiamento introdotto dalla riforma va esattamente in questa direzione, con il superamento dell’anomalia del bicameralismo paritario e la correzione degli eccessi federalisti del Titolo V. L’obiettivo di rafforzare la responsabilità e la qualità della rappresentanza, rendere più veloce l’azione legislativa – e soprattutto renderla omogenea sul piano nazionale – è più che condiviso.
Siamo già in grande ritardo: le conseguenze del cattivo funzionamento di un assetto non più in grado di assolvere la funzione per il quale era stato concepito, hanno prodotti danni gravi. Ciò che ha segnato in profondità il Paese è il sentimento di sfiducia nelle istituzioni e negli organi di rappresentanza, la diffidenza verso una politica inconcludente che tradisce la propria vocazione concentrandosi, ad ogni livello, nella propria autoconservazione e nella tutela dei propri privilegi. Istituzioni che non riescono ad autoriformarsi generano distanza e rifiuto. Istituzioni che non funzionano nei tempi e nei modi ordinari producono diseguaglianze e arbitrio. Questo è esattamente ciò che è accaduto alle donne, che nel gioco delle spinte corporative hanno faticato moltissimo a far passare e a far pesare le loro ragioni, e anche una volta conquistati gli obiettivi – dalla 194 alle politiche contro la violenza – hanno visto la decisione raggiunta frammentarsi o addirittura rovesciarsi nei passaggi sul piano regionale, con l’effetto di produrre pesanti discriminazioni. Diritti e servizi cruciali sono diventati accessibili, e godibili, a seconda dell’area di residenza. Lo specchio di questa diseguaglianza è la composizione delle assemblee regionali, dove accanto a esempi avanzati, di partecipazione piena di entrambi i generi, ve ne sono altri da cui le donne sono del tutto escluse, come in Basilicata o nel Lazio. La riforma non a caso interviene con puntualità su questi aspetti, promuovendo il principio della democrazia paritaria sul piano parlamentare – art. 55 – e richiamandone il rispetto per le Assemblee regionali – art. 122.
Cambiare è necessario, superando paure e resistenze; aggiornare la parte attuativa della Costituzione è il modo che abbiamo oggi per far vivere, fino in fondo, i principi di convivenza civile e politica sanciti nella prima, la via più sicura per non tornare indietro.